Picasso: «Raffaello? Si può fare…»
Roma. Agli inizi del Novecento la danza, legata alle dimensioni del movimento e dello spazio, si rivela uno dei linguaggi della creatività che meglio rappresenta lo spirito del nuovo secolo. Tra la fine del 1916 e la prima metà del 1917 a Roma accade qualcosa di straordinario: Sergej Diaghilev, il geniale impresario dei Balletti Russi, vi stabilisce il suo quartiere generale, in occasione della seconda tournée nella Capitale. Andato in scena a Parigi il 18 maggio 1917, «Parade» nasce da Picasso, creatore delle scenografie e dei costumi, da Jean Cocteau, autore della sceneggiatura, dal musicista Eric Satie e dal ventenne danzatore Léonide Massine. Nel presentare lo spettacolo, Guillaume Apollinaire usa per la prima volta la parola «surrealismo».Alle Scuderie del Quirinale dal 22 settembre al 21 gennaio è aperta la mostra «Picasso. Tra Cubismo e Neoclassicismo. 1915-1925», una coproduzione tra Ales e MondoMostre Skira, che chiude le manifestazioni sul primo viaggio italiano di Picasso nel 1917. È curata da Olivier Berggruen (1963), membro del comitato scientifico del Musée Picasso di Parigi, terzo figlio di Heinz Berggruen, mercante di Picasso e collezionista, che cedette alla Germania una parte della sua raccolta, comprensiva di 85 dipinti dell’artista spagnolo: fu l’avvio del Museum Berggruen di Berlino, da cui giungono in mostra diverse opere. Il curatore è coadiuvato da Anunciata von Liechtenstein e da un comitato scientifico composto da Laurent Le Bon, Brigitte Leal, Carmen Giménez, Gary Tinterow, Valentina Moncada e Bernard Ruiz-Picasso, nipote dell’artista (catalogo Skira). Un centinaio le opere esposte, tra cui il delicato «Harlequin (Léonide Massine)» (1917), «Portrait d’Olga dans un fauteuil» e «Pierrot» (1918), «Grande Baigneuse» (1921), «Deux femmes courant sur la plage» (1922), che sembra ispirarsi al moto prospettico della raffaellesca Stanza di Eliodoro (anche se, pare, di fronte a quegli affreschi, anni dopo, Picasso avrebbe dichiarato, con disarmante superiorità: «Si può fare, no?»), «La Flûte de Pan», «Saltimbanque assis, les bras croisés» e «Arlequin au miroir» databili al 1923, «Paul en Arlequin» (1924) e «Les trois danceurs» (1925). Si vedono inoltre numerosi acquerelli e disegni, costumi per lo spettacolo, foto e documenti. A Palazzo Barberini è esposto il gigantesco sipario di «Parade». La mostra s’incardina sul soggiorno di Picasso a Roma nel 1917: furono soltanto due mesi, compresi i viaggi a Napoli, Pompei e Firenze, sufficienti però all’assunzione della figurazione nel suo lessico espressivo e all’incontro con la ballerina Olga Khokhlova, che sposerà e gli darà il primo figlio Paulo. Nello studio al numero 53b di via Margutta Picasso lavora alacremente. Visita la città, è colpito dalle belle fioraie che, in costume folcloristico, si offrono come modelle. A Roma in quel periodo lavorano per la stessa compagnia Michail Larionov e sua moglie Natalja Goncarova, Fortunato Depero e Giacomo Balla.Abbiamo intervistato Olivier Berggruen.In che cosa si differenzia questa mostra da quella curata da Jean Clair nel 1998 a Venezia sullo stesso tema?La fondamentale mostra di Jean Clair era incentrata, in qualche misura, sull’influenza che ebbe l’arte Italiana su Picasso negli anni dal 1914 al 1924 mettendo in risalto alcune fonti, come i vestiti tradizionali romani e le antichità di Pompei. La mostra alle Scuderie si focalizza su ciò che io definirei le «tensioni» interiori (piuttosto che esterne) dell’artista (Primitivismo, Classicismo e Cubismo) e come queste si articolarono con quello che vide a Roma, Napoli e altrove. Sarebbe assurdo escludere le influenze esterne, per cui è inevitabile una sovrapposizione con la mostra di Jean Clair, ma il mio progetto si concentra sullo sviluppo dello stile di Picasso, in cui il Cubismo è un filo costante. Infine sarà evidenziata la sua interazione con i Balletti Russi di Diaghilev in modo più incisivo rispetto alla mostra precedente.Perché una nuova mostra su quel periodo?La peculiarità dell’immensa opera di Picasso è che non si finisce mai di studiarla e di capirla. Ecco, a mio avviso, la ragione di una nuova retrospettiva sugli anni 1915-25. Questa mostra si occupa meno di fattori esterni, ad esempio l’adozione del Classicismo come conseguenza della vittoria francese sulla Germania nel primo conflitto mondiale. L’impressione che desidero lasciare nel visitatore è la complessità visuale e architettonica dell’opera di Picasso di quel periodo. L’artista agisce come un performer, un giocoliere, mettendo in atto i diversi «impulsi» (Cubismo, Primitivismo, Classicismo) a secondo delle richieste della committenza e dell’argomento del lavoro.Ci sono prove che nel 1917 Picasso visitò i Musei Vaticani, soprattutto le stanze di Raffaello?È opinione diffusa che Picasso vide i Musei Vaticani e lo sostiene anche il biografo John Richardson. Comunque si è in genere concordi nel fatto che le Stanze non abbiano avuto un’influenza immediata e decisiva sulla concezione di Picasso delle monumentali figure femminili degli anni Venti. Le fonti antiche e popolari ebbero un impatto maggiore.Quando Picasso è a Roma, vi lavorano diversi artisti su altri spettacoli della compagnia di Diaghilev. Questo aspetto ha un rilievo nella mostra?È posto un forte accento sulla vicinanza di Picasso con artisti, letterati, ballerini e musicisti europei, mentre è minore quello sugli artisti italiani incontrati a Roma, sui quali in seguito si espresse, forse ingiustamente, con disprezzo. A questo scopo abbiamo scelto di concentrarci su un affascinante carteggio tra Picasso, Massine, Cocteau e Satie di proprietà del Metropolitan Museum di New York.Articoli correlati:Picasso e PulcinellaPicasso a Napoli e Pompei in cerca d'ispirazione. Da quel viaggio di cent'anni fa nacque «Parade» Picasso: «Raffaello? Si può fare...» ...